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'Il welfare che non c'è': a Nobìlita Festival il confronto tra le aziende

'Il welfare che non c'è': a Nobìlita Festival il confronto tra le aziende
Autore: Patrizia Semeraro - Redazione Cultura
Data: 26/03/2018

Benefit flessibili per rispondere alle esigenze dei singoli, sì allo smartworking e a una nuova cultura del risultato
A Nobìlita, il Festival del lavoro di Bologna, le aziende si confrontano sul
“Welfare che non c’è”

Fino a stasera all’Opificio Golinelli di Bologna incontri tra imprenditori, professionisti e giovani per tracciare la rotta dei lavori di domani.

È necessario un cambio di mentalità, è necessaria la promozione di una nuova cultura del risultato per incidere in profondità sul sistema Paese. Non è più valida l’equazione tra produttività e durata della presenza in ufficio, ogni forma di taylorismo è ormai anacronistica.
 
Sono alcune delle riflessioni emerse all’unanimità dall’incontro“Il Welfare che non c’è” svoltosi questa mattina nell’ambito di Nobìlita, il festival dedicato alla cultura del lavoro organizzato dalla community FiordiRisorse, in programma fino a questa sera all’Opificio Golinelli di Bologna. Gli ospiti sul palco – Alessandra Stasi, Group Talent&People Development di Barilla, Giordano Curti, Direttore Generale Cir Food, Michele Riccardi, HR Manager di EdenRed Italia e Andrea Montuschi, Presidente di Great Place to Work – si sono confrontati sui temi del welfare, tentando di definire cosa significhi oggi.
 
Le best practice in essere all’interno delle singole realtà aziendali – dalla cura dell’alimentazione alla disponibilità di piattaforme che consentono alle persone di disporre dei propri budget individuali secondo formule di flexible benefits fino allo smart working – disegnano uno scenario di costante tentativo di armonizzazione tra i bisogni delle aziende e quelli dei lavoratori. Un tentativo che risulta essere conveniente, sia per quanto comporta in termini di defiscalizzazione sia in quelli di soddisfazione del dipendente e, conseguentemente, di maggior produttività. “
 
Uno scenario che apre uno spiraglio di positività in una realtà del mondo del lavoro che molto spesso è raccontata solo al negativo, tra incongruità retributive e costanti ricatti al lavoratore. “Quel che manca è un cambio di mentalità - dice Alessandra Stasi di Barilla. - Misure di welfare come lo smartworking comportano investimenti ridotti da parte delle aziende ma si traducono in miglior qualità della vita del lavoratore, e, di conseguenza, dell’azienda stessa. È un passaggio culturale nel quale occorre accompagnare i lavoratori, instillando una cultura degli obiettivi, così come nei manager, troppo ancorati alla necessità del controllo sull’operato dei propri dipendenti”. 
 
E se il modello olivettiano non è più percorribile in un panorama così profondamente mutato dal punto di vista storico, sociale, economico, tecnologico, occorre trovare altri strumenti, “destrutturare più che organizzare” secondo le parole di Michele Riccardi, che con EdenRed disegna soluzioni di welfare per le aziende.
 
"E’ impossibile pensare a misure che possano essere identiche per 300 persone: le esigenze variano di individuo in individuo, e di anno in anno: ecco perché quello cui puntiamo è la creazione di un bouquet di offerte in cui le persone possano trovare sempre quello di cui hanno bisogno. Dello stesso avviso Andrea Montuschi, Presidente di Great Place to Work, azienda che misura proprio la soddisfazione delle persone in azienda per comprendere quali misure di welfare si possano adattare ai bisogni dei singoli. “Prendiamo la pausa pranzo: perché devo imporre un’ora? Un dipendente avrà bisogno di mezz’ora soltanto, e preferirà uscire prima dall’ufficio alla sera, un altro avrà bisogno invece di due ore per andare in palestra o tornare a casa a preparare il pranzo per i propri figli: questa è flessibilità ed intelligenza nell’andare incontro ai ritmi dei singoli, garantendo loro un maggior benessere”.
 
Anche lo smart working va in questa direzione, a patto che non lo si sovrapponga con il telelavoro, il lavoro a distanza, ma gli si riconosca la natura di modalità organizzativa intelligente, che consente di organizzare i propri tempi e di riconoscere di volta in volta le modalità operative più performanti: un giorno fuori dall’ufficio, l’altro in riunione con lo staff. E il settore pubblico, sollecita un intervento dalla platea, a che punto è?
 
Nonostante normative specifiche impongano agli enti pubblici di implementare il lavoro a distanza, siamo ben lontani dall’applicazione effettiva: una sinergia privato-pubblico potrebbe essere la strada per costruire assieme nuovi scenari, in cui si faccia strada un modello culturale squisitamente anglosassone – ciò che è tradito dall’abbondanza di anglicismi utilizzati per definire queste modalità – per attivare da un lato responsabilità di comportamenti nei dipendenti, dall’altro la fiducia dei capi nei confronti dei collaboratori.
 



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